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Intervista ai Sonatori de la Gioiosa Marca

a tutto arco

Tratto dalla Rivista  A TUTTO ARCO  numero 4 - anno II
©Tutti i diritti riservati


Ennio Francescato

Alla fine del Cinquecento la famiglia dei violini, allora agli albori della sua storia, ebbe una subitanea e perentoria affermazione a Venezia ed in tutta la Repubblica Serenissima, e da quel momento iniziò un lungo susseguirsi di capolavori musicali sino alle opere dei grandi compositori del barocco. Ma se i nomi di musicisti quali Vivaldi, Albinoni e di altri loro contemporanei sono universalmente noti, e le loro opere figurano frequentemente nei programmi concertistici di ogni parte del mondo, assai meno conosciute sono le composizioni degli autori delle fasi antecedenti e successive al massimo splendore della storia musicale della città lagunare.
I Sonatori de la Gioiosa Marca sono stati il primo ensemble a proporre una sistematica riscoperta della incredibilmente ricca e polimorfa produzione di musica strumentale in ambito veneto dal tardo Rinascimento all’epoca classica, e per giunta attraverso un rigoroso stile interpretativo improntato ad uno scrupoloso rispetto dei criteri filologici. Dopo venticinque anni di attività concertistica, durante i quali hanno mietuto ragguardevoli successi (fra l’altro hanno inciso assieme a Giuliano Carmignola quella che è considerata dai critici la versione di riferimento delle Quattro Stagioni di Vivaldi), continuano instancabili ad esplorare sempre nuovi territori musicali, rivelando sovente delle autentiche gemme della musica antica, dimenticate da secoli in qualche polveroso scaffale di biblioteca. Abbiamo incontrato quattro dei componenti dei Sonatori de la Gioiosa Marca, i violinisti Giorgio Fava e Giovanni Dalla Vecchia, il violoncellista Walter Vestidello ed il liutista Giancarlo Rado, e ci siamo lungamente intrattenuti con loro a conversare sulle inesauribili emozioni, sempre nuove, che la musica antica, partecipata intimamente e ricreata con raffinato spirito artistico, può procurare.


 

- Come sono nati i Sonatori de la Gioiosa Marca? Quale significato ha il nome dell’ensemble?

G.R. Venticinque anni fa gli ensemble musicali prendevano spesso nome da un compositore, oppure erano di moda nomi come "Musica Antiqua …" oppure "Consort…". Il nostro nome invece, un po’ scanzonato, sottintende un modo diverso di concepire la musica. Con il nome abbiamo voluto focalizzare l’attenzione sull’ampio repertorio della musica veneta, ricordato da tutti libri di storia della musica, ma in realtà poco eseguito nei concerti, fatta eccezione per l’opera strumentale di Vivaldi e di alcuni suoi contemporanei.
G.F. Gioiosa Marca è infatti il nome antico della Marca trevigiana: questo nome risale al XIII secolo, e immediatamente suggerisce l’idea di un territorio ricco di storia e di manifestazioni artistiche, che si vuole far rivivere. A Venezia, nel XVII secolo, la corporazione che raccoglieva coloro che suonavano uno strumento era detta l'"Arte dei Sonadori". Abbiamo modernizzato tale nome in Sonatori. In verità la scelta di questo nome è stata suggerita da un musicista che ci ha seguito nei primi passi, l’organista Sergio de Pieri, allora docente al Conservatorio di Venezia. Inizialmente questo nome ha costituito un handicap: era un nome molto lungo, di difficile comprensione e traduzione; ma allo stesso tempo stimolava la curiosità e così ha resistito.
Sin dagli esordi abbiamo cercato di collegarci ad una tradizione trevigiana. Uno dei primi programmi si intitolava "Le Veglie trivigiane", nobili adunanze che si svolgevano in città all’inizio del Seicento e univano musica, ballo e letteratura. Il Duomo di Treviso inoltre aveva una grande tradizione di Maestri di cappella, protagonisti di un’importante cultura policorale: i famosi "cori battenti": probabilmente nati qui prima di affermarsi nella città lagunare. Lo splendore della vita musicale veneziana è impensabile senza il contributo delle realtà del suo entroterra.
G.R. Per quanto riguarda la musica strumentale, abbiamo iniziato dalla musica del Seicento, da autori mai eseguiti da altri ensemble. Ricordo il primo nostro concerto, il 4 gennaio 1984, con un programma di Sonate in trio, comprendente fra l’altro composizioni di Salomone Rossi, di Dario Castello e di Tarquinio Merula. La chiesa era stracolma. Abbiamo subito capito che c’era un grande interesse per questo tipo di riscoperta: era avvertibile il desiderio da parte del pubblico per questo tipo di ricerca storica, per la riscoperta delle composizioni musicali di autori da molto tempo dimenticati.
Questa musica richiedeva l’impegno di un gruppo di specialisti, che fossero disponibili ad inventare un modo diverso di suonare i loro strumenti. Abbiamo così contribuito al riemergere dall’oblio di tutta una generazione di musicisti di notevole valore vissuti a Venezia attorno all’epoca di Monteverdi, che ci hanno lasciato composizioni strumentali assai pregevoli. Ancora oggi suoniamo spesso molti di questi brani, da noi riscoperti allora.

- Quali sono state le influenze più importanti di personalità di musicisti sul vostro modo di interpretare la musica seguendo i canoni dell’attenzione ai criteri filologici? Quali percorsi di ricerca stilistica avete seguito?

W.V. Venticinque anni fa, all’epoca della fondazione del nostro ensemble, in Italia c’erano pochissime persone che suonassero gli strumenti montati all’antica, interpretando la musica secondo i canoni della filologia. Per questo le influenze più significative sugli inizi della nostra attività sono state quelle di alcuni importanti musicisti stranieri dediti all’interpretazione filologica, con i quali ci siamo perfezionati.
G.F. Dopo il diploma per qualche tempo ho svolto attività concertistica con lo strumento moderno. Nel nostro ensemble l’organista Andrea Marcon aveva già avuto modo di mettersi in relazione con lo stile della musica antica nel corso dei suoi studi all’estero anche come clavicembalista.Il clavicembalo e l’organo hanno svolto una sorta di ruolo guida all’interno del movimento per il recupero filologico della prassi esecutiva. Incuriosito e spinto da Andrea, ho chiesto all’amico liutaio trevigiano Franco Simeoni di costruirmi un violino montato all’antica con il manico più corto e orizzontale, il ponticello barocco e le corde di budello. Con questo strumento, una copia del liutaio veneziano Santo Serafino, e un archetto dalla forma strana, ho compiuto le mie prime esperienze secondo questa nuova prospettiva. Nell’estate successiva ho frequentato tutti i corsi possibili. Sonia Monosoff, una pioniera del violino barocco negli USA, responsabile del Dipartimento di Musica Antica della Cornwell University, tenne un corso alla Fondazione Cini di Venezia. Fui l’unico allievo! Poi andai a Beaune, vicino a Digione, per frequentare un corso con Reinhard Goebel, ma all’ultimissimo momento egli diede forfait. Per fortuna per un concerto passò di lì Ingrid Seifert, violinista del London Baroque, e così le chiesi se poteva darmi una lezione in hotel. Questo per dire che in quegli anni cercavamo di mettere a frutto ogni occasione per comprendere meglio i dettami dell’interpretazione filologica. Ho seguito successivamente dei corsi con Enrico Gatti e Jaap Schröder, e mi sono perfezionato con Chiara Banchini a Ginevra.
W.V.
Io invece ho frequentato dei corsi con Wouter Möller, un grandissimo violoncellista: all’epoca era primo violoncello dell’orchestra di Frans Brüggen, e membro del Quadro Hotteterre (assieme a Kees Boeke, flauto dolce, a Walter van Houwe ed al cembalista Bob van Asperen), un gruppo da camera di primo piano. Möller insegnava ai corsi di musica antica di Polcenigo (Pordenone).
G.R. In Italia il liuto era uno strumento quasi sconosciuto. Perciò ho dovuto studiare liuto all’estero. Ho scelto di studiare con Hopkinson Smith, Paul Odette e Jakob Lindberg, perché rappresentavano il modo nuovo di avvicinarsi alla letteratura per liuto, sia dal punto di vista tecnico sia da quello poetico ed emotivo. Mi sono reso conto che il liuto era uno strumento straordinario, ma implicava un completo cambiamento del modo di suonare.
È stata così riscoperta una grandissima letteratura per questo strumento: tantissima musica e molto bella.Teniamo presente che quando si parla di liuto, ci si riferisce ad una molteplicità di strumenti diversi: dapprima c’è il liuto rinascimentale, nel Seicento si afferma l’arciliuto, troviamo in seguito la tiorba, la chitarra barocca, il liuto barocco. Personalmente mi sono soprattutto specializzato nel repertorio italiano. Un ulteriore aspetto problematico che il liutista deve affrontare è rappresentato dal compito di realizzare il basso continuo: è un compito impegnativo, perché richiede il sapiente esercizio di un gusto appropriato. Infatti ogni fase storica ed ogni stile nazionale richiede una modalità differente nella realizzazione del basso continuo: solamente un’approfondita conoscenza della tipologia dello strumento e della letteratura solistica coeva guida il liutista ad opportune scelte in questo settore. Sono giunti fino a noi alcuni trattati sul basso continuo sufficientemente prodighi di indicazioni, ma sono dedicati principalmente alla sua realizzazione al clavicembalo. Il liutista, per ottenere risultati stilisticamente validi, deve esercitare molto la fantasia ed allo stesso tempo ascoltare con attenzione gli altri musicisti.
G.d.V. Nell’ambiente padovano, nel quale sono cresciuto, c’era una costante presenza di gruppi stranieri che suonavano secondo la prassi filologica. Ho quindi suonato per parecchio tempo a Padova nell’Accademia Bach di Carlos Gubert (cembalista argentino di notevole valore), un gruppo che ricreava esecuzioni storiche con strumenti moderni. Perciò è stata naturale, dopo il diploma, la frequentazione dei corsi di musica antica di Urbino e dei corsi di formazione orchestrale barocca e classica di Mondovì (di cui ho ricoperto per anni il ruolo di primo violino) con Luigi Mangiocavallo. Egli è un violinista abruzzese, che per dodici/tredici anni è stato componente dei Sonatori de la Gioiosa Marca, partecipando con grandi sacrifici, a causa della distanza geografica, alla maggior parte dei loro concerti. Questo perfezionamento mi ha dato l’impulso per fare il passo definitivo verso il violino barocco. Mangiocavallo mi aveva presentato a Giorgio Fava e così, a partire dal 1996, ho iniziato a prendere parte ad alcuni concerti dei Sonatori, finché dal 2001 sono diventato componente stabile dell’ensemble.


 

- Quali sono in generale i criteri di prassi esecutiva che applicate? Com’ è il vostro rapporto con le regole della musica antica? Di voi è stato scritto che avete un modo solare ed italianissimo di interpretare, che appartenete ad una scuola violinistica chiaramente caratterizzata e differenziata. Avete trovato uno stile vostro, coniugando il rigore filologico a questa tradizione veneta?

G.F. Sì, la tradizione veneta è stata per noi un punto di riferimento al pari dello studio della trattatistica dell’epoca. In Europa ed in Italia gli interpreti filologici pensavano di non potersi collegare al passato interpretativo recente, ma ritenevano di dover cambiare completamente rotta. Noi invece abbiamo avuto la fortuna di poter fare riferimento ad esperienze interpretative della musica antica che, sebbene non improntate a criteri filologici, hanno tuttavia, secondo me, sempre mantenuto aperto un canale con il passato. A mio parere il violinismo veneto contiene gli elementi caratteristici di una tradizione che non si è mai interrotta dai tempi più antichi. C’è sempre stato nel modo di suonare dei musicisti veneti un colore particolare, una leggerezza, uno spolvero virtuosistico. Se ascoltiamo le interpretazioni di ensemble veneti degli anni cinquanta e sessanta, e le confrontiamo conquelle delle formazioni romane o tedesche, notiamo subito la differenza. La trattatistica dà un grande contributo nel rendere viva molta musica d’oltralpe e non possiamo negare di aver subito all’inizio l’influenza dell’ascolto delle interpretazioni dei famosi ensemble inglesi, olandesi e tedeschi; allo stesso tempo però non potevamo evitare di ricercare la solarità, la luminosità, la dolcezza del suono, la cantabilità, il colore tipici di tutte le manifestazioni artistiche venete del passato. Sentivamo che c’era un cordone ombelicale che non era giusto tagliare completamente. All’inizio abbiamo ricevuto tante critiche per questa nostra posizione di compromesso, ma alla fine tutti hanno riconosciuto che la musica veneta aveva bisogno dei criteri esecutivi da noi adottati. Ormai tutti gli interpreti sono tornati indietro rispetto alle esagerazioni dell’interpretazione vivaldiana della prima fase filologica.
G.R. Un aspetto che ha fortemente caratterizzato le nostre esecuzioni fin dai primi tempi, è stato l’abbandono delle esecuzioni dei concerti vivaldiani con un intero organico orchestrale, per proporre invece esecuzioni in formazioni a parti reali.
G.F. Questo approccio ci ha permesso di realizzare letture dei brani contraddistinte da una maggiore sensibilità e agilità. I Concerti veneziani "a cinque" sono senza dubbio destinati a piccoli organici: nella città lagunare non sono mai state presenti orchestre numerose, come invece accadeva ad esempio a Roma, o in Francia e Germania. A Venezia gli spazi sono limitati, la città è costruita sull’acqua, tutto deve essere leggero. La musica eseguita in formazione ridotta perde i lacci e le zavorre dei grandi organici, e di conseguenza parla di più, permette di seguire con maggiore facilità l’immediatezzadel racconto, che è elemento chiave di queste composizioni. Come nel teatro, ogni esecutore può assumere con rapidità ed efficacia un ruolo da protagonista, e rientrare altrettanto rapidamente nella scena.
W.V.
Ci siamo un po’ per volta distanziati dallo stile interpretativo seguito nei primi tempi da alcuni dei più famosi gruppi stranieri, alle volte eccessivamente vincolati al rispetto pedissequo delle regole riportate nei trattati dell’epoca.
G.R.
Dobbiamo sottolineare che, per quanto riguarda il repertorio seicentesco italiano, le regole riportate dai trattati dell’epoca in generale non sono molto chiare. Solamente suonando molto repertorio di quel periodo storico, provando e sperimentando diverse soluzioni, un po’ alla volta si riesce ad individuare una strada interpretativa soddisfacente. Questi repertori sono rimasti per secoli del tutto dimenticati: ci siamo dedicati alla loro riscoperta con impegno, in una ricerca che ormai continua da moltissimi anni. Nel Seicento veneto si sono infatti susseguiti stili violinistici con marcate differenze (lo stile di Monteverdi, di Cavalli, di Legrenzi, ecc.), e noi li abbiamo affrontati uno per uno e li abbiamo anche documentati attraverso le registrazioni discografiche. Perciò possiamo dire che la nostra lettura di Vivaldi poggia sulla conoscenza viva di quanto c’è stato in precedenza. Ciò arricchisce notevolmente il nostro approccio, sia per quanto concerne la fantasia interpretativa, sia nella scelta dei tempi: la consapevolezza storica ci permette adesempio di individuare meglio cosa intendesse il Prete rosso quando indica Allegro, Adagio, Andante, cioè di cogliere meglio la differenza che c’è tra le varie indicazioni di tempi.
G.F.
A Venezia nei secoli XVII e XVIII la musica si è sempre più suonata che teorizzata. Nel Nord d’Europa troviamo molti più trattati che forniscono indicazioni dettagliate per la lettura dei brani musicali. Affrontando la nostra musica non avevamo alternative alla conoscenza diretta della musica attraverso la sua esecuzione, senza prescindere dall’attenzione ai dettami della trattatistica, ma evitando di prenderla alla lettera, dal momento che i testi di riferimento (Muffat, Quantz, Geminiani, ecc.) sono riferiti ad altri tipi di repertorio.Teniamo inoltre presente che ciò che è scritto non va sempre preso per "oro colato": a volte il critico svolge una funzione di censura; a volte è stato scritto ciò che non si doveva fare, e le proteste dei critici testimoniano che in realtà si faceva proprio così. Affrontando il repertorio veneto, alle volte ciò che conta è solamente il suonare e risuonare la musica: si può tener conto delle indicazioni lette nella trattatistica, ma solamente il gusto e l’esperienza aiutano a capire precisamente come si deve interpretare un dato passaggio in un brano. Il fatto di vivere immersi in una realtà come quella veneta, nella quale il passato è ancora presente attraverso le testimonianze di innumerevoli monumenti artistici (in ciò siamo ben più fortunati rispetto agli abitanti di molte altre regioni d’Europa, nella quali l’eredità artistica è andata distrutta a causa delle guerre o di altri fattori) ci aiuta enormemente nel riannodare i fili con la nostra storia musicale più antica.
W.V.
Quando invece suoniamo Bach ci rendiamo conto che le sue composizioni rispondono a criteri totalmente diversi, e ciò rappresenta per noi una conferma della correttezza del nostro approccio alla musica veneta.
G.d.V.
Non abbiamo sposato l’ortodossia assoluta, perché ne deriva spesso un’interpretazione completamente arida. La musica veneta invece vuole sempre trasmettere un’emozione.
G.F. Le differenze di stile musicale tra una regione e l’altra dell’Italia, tra una città e l’altra, erano già in evidenza all’epoca: un trattatello anonimo stampato a Roma nel 1785 distingue, parlando del suono, la gaiezza brillante di un violinista veneziano dall’erudita gravità di un violinista bolognese.
G.R.
Credo che all’epoca le differenze anche in campo musicale fossero piuttosto marcate. In ogni città c’erauno stile interpretativo differente: diverso a Roma da quello di Bologna, di Venezia, di Napoli, ecc. Oggi tutto è molto più uniformato. C’erano committenze diverse, gusti diversi in ogni città, e dunque anche gli stili erano diversi. Spesso c’era addirittura un la diverso.
G.F.
Un fenomeno assai interessante è rappresentato dagli influssi di uno stile sull’altro, cioè le cosiddette contaminazioni. Heinrich Schütz ad esempio venne a Venezia all’inizio del secolo XVII, prima ad apprendere la lezione dei Gabrieli e più tardi per incontrare Monteverdi. Ad un certo punto tutti in Europa componevano in stile veneziano.
G.R.
Interessante è anche il fenomeno del collezionismo da parte delle grandi famiglie nobiliari dell’epoca per le composizioni dei musicisti più famosi a loro contemporanei.
G.F.
Pensiamo ad esempio a Federico di Sassonia, che scese da Dresda a più riprese a Venezia accompagnato dai suoi musicisti di corte (fra cui Heinichen, Zelenka e Pisendel) affinché imparassero a suonare alla veneziana. In un disco di concerti per violoncello di Vivaldi (solista Walter Vestidello) abbiamo inciso tutta una serie di concerti facenti parte della collezione dei conti von Schönborn a Wisentheid. Uno dei conti, Rudolf Franz Erwein, era un abile dilettante di violoncello tra i primi in Germania (l’aveva studiato a Roma con Giovanni Lorenzo Lulier, violoncellista di Corelli) ed acquistò all’epoca ben otto concerti di Vivaldi.

- La formazione dell’ensemble è variabile? Quali limiti vi siete dati a questa variabilità?

G.F. La nostra è una formazione elastica, che può allargarsi fino ad un’orchestra da camera, per accompagnare produzioni sia sacre sia profane. Una delle primissime incisioni è stata l’opera La Calisto di Cavalli. Per molti anni abbiamo collaborato con Diego Fasolis ed il coro della Radio della Svizzera Italiana, registrando fra l’altro la Messa in si minore di J.S. Bach, i Vespri di Monteverdi, ecc. A volte abbiamo collaborato con direttori ospiti per queste produzioni, ad esempio con Ton Koopman,Andrew Parrott, Michael Radulescu, Gustav Leonhardt, Alan Curtis. Con quest’ultimo abbiamo messo in scena il Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, l’oratorio San Giovanni Battista di Stradella e per l’anniversario della nascita di Mozart nel 1991 abbiamo eseguito (tra i primi in Italia con strumenti classici) delle sue Sinfonie. Negli ultimi anni abbiamo peraltro un po’ ridotto queste esecuzioni con ampi organici, per fare un tipo di repertorio più antico, destinato a formazioni più agili, di tipo solistico.


 

- Quali difficoltà sono poste dalla letteratura musicale più antica da voi affrontata, e come le avete risolte?

W.V. Per quanto uno possa prendere un’edizione che faccia vedere come lo spartito era scritto una volta, di fatto quest’edizione non dice assolutamente niente. Nel Seicento e primo Settecento lo spartito riporta solamente una traccia, che può essere interpretata benissimo oppure solfeggiata, come tanti fanno. La carta scritta non fa molto testo, se non per dei segni che possono essere equiparati ad arcate e che non è strettamente obbligatorio seguire. C’è ben altro da guardare al di là della musica scritta. E questo vale tanto più quanto più si va indietro nel tempo: i musicisti dell’epoca sapevano le regole molto bene. Inoltre, come già detto prima, c’erano grandi contrasti tra una scuola e l’altra. La scelta del fraseggio e dell’articolazione dipende anche da un’evoluzione di conoscenze di tipo storico e stilisp stico, che interpreta i segni scritti nella partitura.
G.R.
Il problema è sempre quello di suonare "in stile": anche se questa considerazione può sembrare apparentemente banale, in realtà è frutto di una lunga ricerca attraverso anni di attività concertistica, durante i quali ci siamo fatti l’orecchio, ad esempio per la peculiare intonazione, ecc.
G.F. Anche per quanto riguarda l’intonazione, esiste tutta una trattatistica dell’epoca sull’accordatura, sulle differenze tra strumenti tastati e non, sulle difficoltà di conciliarne i diversi tipi di temperamento. Più indietro si va nel tempo, più la trattatistica è imprecisa, in quanto il musicista si basava su consuetudini, meccanismi che lasciavano aleatoria la forma scritta. Non è stato sempre facile il reperimento di questa base di trattati e stampe originali. In questo senso è stata preziosissima la collaborazione con la WDR [l’emittente radiotelevisiva Westdeutschen Rundfunks, ndr], soprattutto nella figura del produttore e amico Klaus Neumann, che ci ha aperto i contatti con le biblioteche più importanti d’Europa. La maggior parte dei manoscritti originali della musica italiana e soprattutto veneziana non si trova nel nostro Paese, ma si trova nelle biblioteche tedesche, polacche, svedesi, ecc. Alle volte una parte di un brano si trova in una biblioteca, un’altra parte in un’altra biblioteca: si tratta di mettere assieme le diverse parti conservate e ricostruire l’intera composizione. Abbiamo dovuto trascrivere moltissimi spartiti, perché il materiale originario è di difficilissima lettura e dunque inutilizzabile per l’esecuzione in sede di concerto.

- Quali sono gli autori più interessanti del Seicento italiano che avete eseguito? Quali scoperte sono emerse dal vostro lavoro di ricerca in quest’ambito?

 G.R. Il nostro ensemble fin dalla fondazione ha dedicato un’attenzione particolare alla musica del Seicento. Non è un caso che abbiamo celebrato il venticinquennale con un concerto all’Accademia Chigiana dedicato a questa epoca.
G.F. Abbiamo frequentemente eseguito composizioni di Dario Castello,Tarquinio Merula, Girolamo Frescobaldi, Biagio Marini, Giovanni Legrenzi e di altri loro contemporanei. Di Dario Castello non si sa praticamente nulla. Ci ha lasciato solo due libri di sonate. È uno dei pochi e forse il più importante
punto di riferimento per capire come si suona la musica della sua epoca. Non ha scritto nessun trattato, ma solamente un’Avvertenza pubblicata come introduzione a queste sonate, che egli definisce "in stil moderno". A Venezia questo nuovo stile, cioè la lezione monteverdiana trasferita nella musica strumentale, è stato il punto di riferimento per tutti. Avverte Castello: «a quelli che si deletteranno di sonar queste mie sonate, che se bene nella prima vista li pareranno difficili; tuttavia non si perdino d’animo nel sonarle più d’una volta: per che faranno prattica in esse & all’hora esse si renderanno
facilissime: perché niuna cosa è difficile a quello che si diletta». Questo autore si colloca storicamente proprio nel momento cruciale del passaggio dalla
musica del Cinquecento, basata sulla proporzione, sulla assoluta geometria, al nuovo stile espressivo solistico derivato dalla musica vocale. Egli indica in modo molto moderno la destinazione strumentale: per fagotto, per viola (che in ambito veneto corrisponde solitamente al violoncello), per due cornetti, per violino, ecc., dimostrando una precisa coscienza dimensione timbrica. La sua musica contiene ancora molte figure e terminologie cinquecentesche, ma inserite in una forma completamente nuova, conforme al nuovo stile sancito dai Madrigali di Monteverdi: il suonare liberamente senza battuta, il recitar cantando.
G.R.
Merula invece guarda maggiormente all’aspetto popolare della musica, specialmente nella melodia, alle volte con scelte armoniche straordinarie che lasciano senza fiato.
G.d.V.
Altro compositore interessantissimo è Biagio Marini, nativo di Brescia, ma sin da giovane attivo come musicista nella Basilica di San Marco a Venezia.
G.F.
Abbiamo più volte suonato musiche di Giovanni Legrenzi, in particolare eseguendo l’unico suo oratorio che riporta esplicitamente gli strumenti in partitura, La Morte del Cor Penitente. Alle sue sonate abbiamo dedicato il nostro primo cd per la Rivo Alto, registrato in occasione di un convegno dedicato al compositore dalla Fondazione Levi di Venezia. Egli ha un posto di assoluto rilievo nella storia musicale, in quanto autore che collega l’esperienza monteverdiana a quella vivaldiana, per il gusto e per certe scelte di forme musicali. È stato tra i primi compositori ad aver scritto sonate per quattro violini, che anticipano le sonorità ben note dei concerti dell’Estro Armonico vivaldiano. Tra le scoperte va citato anche il compositore Giovanni Antonio Arrigoni, pioniere del teatro veneto a Vienna e autore di alcune splendide e modernissime sonate a 5 e 6 strumenti, inserite in una sua raccolta di Madrigali e stampate un anno prima del famosissimo VIII Libro di Madrigali di Monteverdi.

- Un compositore da voi molto eseguito è Vivaldi: quali aspetti del "prete rosso" avete evidenziato nei vostri concerti?

G.F. Vivaldi è forse il compositore più presente nella nostra discografia. Nella musica di Vivaldi il virtuosismo naturale, l’istintività sono caratteristiche musicali fondamentali. Se in Bach la precisione nella ricostruzione formale permette di garantire un risultato, nella musica di Vivaldi invece questa operazione da sola, senza un’adeguata "vernice interpretativa", non restituisce nulla. Stranamente la registrazione delle Quattro Stagioni con Giuliano Carmignola non si è affermata subito, forse perché ha avuto la sfortuna di uscire poco dopo la pubblicazione della registrazione degli stessi concerti da parte di Fabio Biondi e del Giardino Armonico, acclamate dalla critica discografica. Il cd uscito qualche tempo dopo, "Le Humane Passioni", ha ricevuto uno straordinario consenso di critica. Negli anni successivi l’incisione delle Quattro Stagioni si è riappropriata di tutti i consensi mancati al momento della pubblicazione: tutti i resoconti più recenti delle varie edizioni delle Quattro Stagioni hanno costantemente assegnato alla nostra la valutazione di incisione di riferimento. Forse ha giuocato a sfavore di questo cd anche il fatto che in esso Carmignola si presentava per la prima volta come interprete su uno strumento montato all’antica e perciò tra i critici è serpeggiata una grande diffidenza per un musicista indubbiamente di grande fama ma noto piuttosto come interprete su uno strumento moderno.
G.d.V. "Le Humane Passioni" era un progetto del tutto originale che riuniva in un cd quattro concerti con il titolo riferito appunto alle emozioni dell’uomo.
G.F. Un altro cd importante è quello dedicato ai concerti per le Solennità, sempre con Carmignola come solista. Particolarmente interessante è un ritrovamento che mi capitò studiando i diversi manoscritti disponibili di questi concerti: il famoso "Album di Annamaria", allieva prediletta dell’ultimo periodo di Vivaldi all’Ospedale della Pietà, conservato nella biblioteca del Conservatorio "Benedetto Marcello" di Venezia, contiene in appendice delle cadenze, fra cui una versione ornata dell’Adagio dal Concerto in do maggiore "per l’Assunzione della Beata Vergine". Noi abbiamo eseguito per la prima volta in tempi moderni questa versione con le ornamentazioni originali dell’epoca e l’abbiamo scelta per la registrazione su cd.
G.d.V. Abbiamo anche esplorato il repertorio cameristico vivaldiano, che costituisce la naturale continuazione storica del repertorio seicentesco: le sonate a tre, come quelle solistiche con il basso continuo, hanno spesso fatto parte di nostri programmi storicamente articolati, nei quali ci presentavamo con una formazione ristretta di quattro o cinque musicisti.

- Quali altri compositori del Settecento veneto avete valorizzato nelle vostre interpretazioni? Quanto resta ancora da rivelare di questa stagione musicale così straordinariamente ricca?

G.F. Abbiamo anche affrontato numerosi compositori coevi a Vivaldi: è estremamente interessante l’indagine sulla situazione musicale a Venezia nell’epoca immediatamente precedente all’uscita degli straordinari concerti dell’Estro Armonico. Abbiamo scoperto ad esempio le figure dei due fratelli Taglietti, di Carlo Antonio Marini, allo stesso tempo violinista e violoncellista proveniente dalla zona di Bergamo, di Marcantonio Ziani, di Giorgio Gentili, primo violino nella Cappella di San Marco, che fu antagonista di Vivaldi nei primi anni di attività del grande musicista veneziano. Gentili scrive delle composizioni che riproducono gli stessi stilemi della musica di Vivaldi, ma è meno dotato di genio artistico. Egli rappresenta dunque la testimonianza di un linguaggio violinistico comune nella Venezia dell’epoca.
W.V. Dovendo fare una scelta, abbiamo analizzato tanta musica, abbiamo trascritto una marea di concerti di ogni singolo autore, per poi proporne solo uno in concerto o in disco.Tutta questa ricerca sulle opere strumentali di quell’epoca permette di comprendere sempre di più i meccanismi compositivi e le scelte di colore, e consente di inquadrare meglio le tante analogie, mettendo sempre più a fuoco le peculiarità del linguaggio compositivo "alla veneta". Anch’o vorrei sottolineare questo aspetto del nostro lavoro di ricerca musicale: la frequentazione di tantissima musica dell’epoca, che ci ha consentito di comprendere meglio il suo significato, di imparare a riconoscere le peculiarità delle firme dei vari autori e, di conseguenza, di dare una resa più efficace alle composizioni all’atto della loro esecuzione in concerto.


 

- Come affrontate i Maestri del barocco del Nord Europa (ad esempio Bach, Haendel,Telemann, ecc.)?

G.d.V. L’ensemble non si limita certo a suonare solamente musica veneziana, ma ha eseguito anche molta musica del Nord d’Europa. È curioso che quando andiamo in tournée nel Nord Europa e suoniamo tale musica, otteniamo sempre un grande successo. Possiamo pensare che, nei nostri concerti, il pubblico di tali Paesi sia posto di fronte ad un modo diverso di interpretare gli autori a loro più vicini, ma che questa prospettiva differente dal consueto risulti comunque convincente.
G.F. Non possiamo rinnegare completamente le nostre radici, neppure eseguendo tali repertori appartenenti a stili nazionali differenti dal nostro, e dunque diamo una lettura un po’ personale di questa musica, che tuttavia risulta in ogni caso accattivante per gli ascoltatori. Stiamo peraltro ben attenti e non andiamo a briglie sciolte, consapevoli della necessità di un approccio totalmente diverso. Questa musica esige un’assoluta disciplina e un rigore, che sono molto diversi da quello slancio individualista richiesto spesso nella musica italiana.

- Su quali compositori dell’epoca rococò vi siete soffermati? Qual è il peso secondo voi di quest’epoca "di mezzo", che collega il tardo barocco all’emergere dello stile classico?

G.F. La musica dell’epoca successiva al barocco ha bisogno di un ascolto di tipo particolare: è molto più legata alla fruizione intima, è scritta per un pubblico raffinato, è spesso una sorta di conversazione galante in musica. È molto coinvolgente per chi suona, ma fatica a volte a far presa sul grande pubblico.
W.V. Abbiamo eseguito lo Stabat Mater di Luigi Boccherini nella versione in quintetto, un capolavoro assoluto, che ha una straordinaria profondità dell’orchestrazione. Boccherini è estremamente delicato da interpretare: come in Vivaldi, il buon esecutore deve avere la padronanza di questo linguaggio particolare, non basta andare a tempo, tutto deve fluire con leggerezza e virtuosità.
G.F. Boccherini, nei quartetti e quintetti, ma anche nei trii e persino nei duetti, dimostra una straordinaria e personalissima idea del suono come colore, degli impasti, dei contrasti tra passaggi in pianissimo ed in fortissimo, delle mescolanze di effetti strumentali.Tutto ciò denota un’incredibile profondità nella conoscenza delle risorse dei diversi strumenti e un eccezionale istinto di combinazione degli stessi. A Venezia non troviamo in quest’epoca un compositore dello stesso livello di Boccherini.Tuttavia sono attivi nella città lagunare a quest’epoca numerosi compositori "minori", influenzati dalla scuola
operistica napoletana, che si aprono ad un linguaggio nuovo. Come conseguenza del canale sempre aperto con Vienna, vedono la luce in questa fase numerosi proto-quartetti, che precorrono la piena codificazione di questa forma cameristica concretizzatasi con Franz Joseph Haydn. Tra i compositori di questo genere musicale ricordiamo le figure di Capuzzi, Bertoni, Ferrandini, Stratico, Dall’Oglio,Tessarini, Lucchesi, Schuster e lo stesso Tartini. Anche nella musica strumentale la tradizione della cantabilità veneziana si mescola allo stile operistico napoletano, dando luogo ad un’intensa produzione di brani cameristici per formazioni più o meno ampie, sino al quintetto con contrabbasso. In tal senso sono famose le sonate a quattro di Tartini. Questo tipo di musica nasce nell’ambiente accademico, cioè nei saloni privati, secondo modalità analoghe alla tradizione di poco posteriore della Hausmusik, affermatasi a Vienna in epoca classica.
G.d.V. Paolo Cattelan ha compiuto parecchi studi su questo proto-quartetto veneto, mettendo tale sviluppo in relazione con i primi viaggi a Venezia di Mozart, anteriori ai soggiorni milanesi, e quindi collegandolo con la storia successiva della forma del quartetto. Per dare un’indicazione significativa del consistente valore di questi compositori, ricordiamo ad esempio che Giovanni Ferrandini compose un Pianto di Maria, per molto tempo ritenuto erroneamente opera di Haendel, e Dall’Oglio fu invece tra i fondatori della scuola violinistica russa a San Pietroburgo.

- Il vostro repertorio comprende anche gli autori della fine del Settecento: in quale prospettiva avete eseguito i capolavori dei grandi Maestri dell’epoca classica su "strumenti originali"?

W.V. Un’occasione interessante per suonare il repertorio di fine Settecento nella prospettiva dell’utilizzo degli strumenti "originali" è scaturita dalla conoscenza con una musicista in possesso di una ricchissima collezione di fortepiani [Teminuska Vesselinova, ndr]: con questo strumento si possono realizzare straordinari equilibri e trasparenze nell’esecuzione dei capolavori cameristici con tastiera dell’epoca classica. Si sente proprio che tali musiche sono state scritte per il fortepiano e non per il pianoforte moderno. Grazie a Teminuska Vesselinova, musicista che abita a Trento e che possiede un vero e proprio museo di fortepiani di diverse epoche, abbiamo potuto assaporare la pertinenza di ciascuno strumento per la letteratura musicale del suo preciso momento storico.
G.F. Un altro momento interessante è stata l’esperienza con gli straordinari solisti del gruppo Zefiro. Scoprire le sfumature originali di strumenti come il corno di bassetto o il clarinetto d’amore nei brani di W. A. Mozart e F. J. Haydn, e fondere i propri strumenti in equilibri magicamente ricomposti è stato davvero emozionante.

- Qual’ è stato il contributo all’ensemble della collaborazione dei grandi solisti (Carmignola, Bartoli, ecc.)?

G.F. L’incontro con Carmignola prima o poi doveva avvenire: io ho studiato con lui, trevigiano come me; era dunque inevitabile un progetto assieme. Sapevamo che suonava stupendamente le Stagioni con il violino moderno ed era un esponente di quel modo solare di interpretare "alla veneta", di quell’istinto e di quell’ironia, che abbiamo sempre sentito come per noi irrinunciabili. Con lui abbiamo registrato quattro cd magnifici.
G.R. Con Sergio Azzolini abbiamo riscoperto un interessantissimo strumento da tempo scomparso: il "fagotto veneziano" [chiamato bassanello, ndr]. È stata un’esperienza di musicologia applicata: non sono infatti pervenute sino a noi delle copie di questo "fagotto" ed anche nell’iconografia sono presenti solo poche immagini. Ma Vivaldi ha scritto ben 39 concerti incredibilmente virtuosistici per tale strumento, evoluzione della ancor più antica dulciana, molto amata nella città lagunare. Azzolini ha trovato uno strumento che aveva tutte le caratteristiche di un "fagotto veneziano", ma con un la più alto rispetto agli strumenti conosciuti: insieme ne abbiamo ordinata una copia dal costruttore olandese Peter de Koningh e con il sostegno della WDR e della Regione Veneto abbiamo registrato un intero cd di concerti per fagotto. Il suono di questo strumento è assai diverso da quello del fagotto moderno, è molto più secco ed agile. Vi lascio immaginare le difficoltà incontrate: a volte lo strumento non funzionava, offriva delle sorprese ed Azzolini con solo quattro chiavi, in modo totalmente funambolico, doveva riuscire a realizzare tutte le note. Abbiamo infine collaborato con Cecila Bartoli, mezzosoprano belcantista di superlative qualità vocali, incidendo assieme un cd di straordinario successo, e con Dorothee Oberlinger, strepitosa virtuosa di flauto dolce. Ultimamente abbiamo registrato un cd anche con la brillante violoncellista Sol Gabetta.
G.F. L’esperienza di far musica assieme ad artisti provenienti da un mondo diverso, ma di eccelsa qualità, è stata un’esperienza estremamente costruttiva: infatti in anni più recenti è stata percorsa anche da altri ensemble.

- Come si articola la vostra discografia?

G.R. Da un punto vista discografico, dobbiamo notare che a partire dalla metà degli anni Novanta gli ensemble italiani di musica antica sono stati promossi in ambito internazionale. Prima gli ensemble italiani non avevano credibilità. Poi si è scoperto che anche i gruppi italiani avevano qualcosa di importante da dire, in particolare nell’interpretazione della musica italiana. Le nostre registrazioni, infatti, sono per la maggior parte di musica italiana ed in particolare veneziana del Sei-Settecento, quasi esclusivamente di genere strumentale. Vivaldi è ovviamente l’autore più rappresentato. Abbiamo sempre seguito di persona i montaggi delle registrazioni.
G.F. Di fatto il montaggio, anche se noioso, è in realtà un momento estremamente creativo. Perciò è un lavoro che non può essere demandato ad un tecnico. Solo l’artista può scegliere la presa sonora che meglio testimonia l’idea musicale del brano. Non si tratta dunque solamente della limatura della nota stonata o della piccola imprecisione dell’insieme, ma si tratta di scegliere la versione che ha più energia, più chiarezza nella resa dell’idea musicale. Per tali motivi non abbiamo mai delegato questo momento.
G.R. Il direttore della registrazione deve avere un’apparecchiatura di primo ordine, deve essere un musicista e deve sapersi mettere al servizio. In Italia figure di questo tipo sono alquanto rare. Per questo abbiamo sempre preferito prenderci in prima persona la responsabilità anche di questa fase della realizzazione dei nostri cd.

- Quali sono i progetti per il futuro?

G.F. Purtroppo la collaborazione con la WDR ha subito un rallentamento a causa della recessione economica in atto. Gli Enti radiofonici tendono in questi momenti di crisi a realizzare registrazioni di concerti dal vivo piuttosto che incisioni discografiche. La Warner, con la quale abbiamo effettuato parecchie registrazioni negli ultimi anni, ha chiuso diverse etichette e ridotto drasticamente i nuovi progetti discografici. I repertori meno battuti, meno commerciali sono poco appetibili per le case discografiche, in quanto non assicurano molto di più dei numeri sufficienti alla copertura dei costi.Tuttavia, nonostante questo momento di difficoltà, siamo fiduciosi per il futuro ed abbiamo molti progetti. Ad esempio, come già accennato prima, vorremmo dedicare un cd a composizioni di ambito veneto dell’epoca successiva a Vivaldi. Vorremmo inoltre incidere una versione a parti reali dello Stabat Mater di Pergolesi, che abbiamo spesso eseguito in concerto: l’alleggerimento dell’accompagnamento strumentale permette infatti di sottolineare in modo incredibile il dettaglio della parola in questo capolavoro assoluto della musica barocca. Il nostro interesse va anche al primissimo periodo della storia del violino, antecedente a Monteverdi: in questa epoca troviamo infatti forme diverse, sia nella musica di danza sia nella musica sacra, che sono estremamente interessanti. Ci piacerebbe gettar luce sulla pratica delle primissime "bande" di viole da brazzo dell’ultima parte del Rinascimento fino alla sonata a tre violini di Gabrieli, che esemplifica splendidamente l’emergere della nuova sensibilità barocca, mettendo in evidenza gli strumenti ad arco soprani, emblema veneziano del secolo successivo. Riteniamo anche molto interessante approfondire la musica vocale post vivaldiana: a Venezia nel periodo di Quaresima, con i teatri chiusi, i melomani accorrevano negli Ospedali della città ad ascoltare le putte nei mottetti per voce ed archi. Questo repertorio contiene molti brani di considerevole valore, meritevoli di essere messi in luce anche sul piano discografico. Dato l’estremo virtuosismo della parte vocale, per questo progetto sarà necessaria la collaborazione con cantanti di straordinarie capacità artistiche.

 

ENNIO FRANCESCATO
Ennio Francescato violoncellista e docente presso il Conservatorio Statale di Musica di Udine e alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Udine, è autore di numerosi libri e articoli sulla didattica dello strumento ad arco, tra cui "La rappresentazione mentale della musica e l’istruzione strumentale in età precoce" (L’Autore Libri Firenze 1998). È Segretario di ESTA-Italia.

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Giancarlo Rado